Riceviamo e volentieri
riprendiamo un intervento di Franco Astengo su come nel 1991 fu
affrontata dalla "sinistra comunista" la liquidazione
dell'esperienza politica del PCI.
Franco Astengo
Sinistra comunista
Alberto Olivetti
riferendo sul Manifesto della pubblicazione avvenuta su Critica
Marxista di un carteggio tra Ingrao e Luporini risalente al 1991
reputa ancora aperta quella che definirei “questione della sinistra
comunista”.
Mi permetto di riprendere
l’argomento proprio perché nell’articolo di Olivetti corre il
filo che Ingrao traccia in una sua relazione tenuta il 15 aprile 1991
(all’indomani, quindi, della nascita di PDS e Rifondazione
Comunista) tra “motivazione dei processi” e “concreto”.
Nell’occasione Luporini
pone l’accento ,sotto questo aspetto, di un dato di critica: “A
fronte di un’ampiezza strategica – secondo Luporini che analizza
la relazione di Ingrao in quel convegno – non emerge una
sufficiente autonoma piattaforma politica, cioè una strategia da
affermare subito e che sia subito mobilitante”.
Raccolgo a questo punto
l’elaborazione sviluppata a suo tempo da Luporini ed esposta
nell’articolo di Olivetti, per compiere un passo indietro (che mi
permetto di non ritenere inutile) e riallacciarmi, infine, al tema
della “questione ancora aperta”.
Il tema “dell’ampiezza
strategica e dell’assenza di una strategia da affermare subito in
senso “mobilitante” ha attraversato tutta la storia della
sinistra comunista nel PCI, e poi anche fuori dal PCI, almeno a
partire dal convegno sulle tendenze del capitalismo italiano
organizzato dal “Gramsci” nel 1962, quel convegno che registrò
il difficile confronto tra la linea esposta da Amendola (sul
“capitalismo straccione”) e quella contenuta negli interventi di
Trentin e Magri sulla modernità del capitalismo italiano.
Una storia proseguita con
“il non sono persuaso”pronunciato da Ingrao in conclusione
dell’intervento all’XI congresso, alla radiazione del Manifesto
con il rifiuto del PCI di accettare una contaminazione che
rappresentasse un intreccio tra diverse culture anche portatrici
della spinta sessantottina ma non solo e poi via via in altre
occasioni riguardanti soprattutto la critica al compromesso storico,
il tema dell’austerità e/o della società sobria (penso ai giorni
dello shock petrolifero) alla visione complessiva dell’alternativa,
all’elaborazione riguardante la riforme delle istituzioni portata
avanti attraverso il CRS e la stessa Commissione del CC del Partito.
Tutto questo percorso che
ho sommariamente ricordato per pochi spunti è stato sempre
oscillante, nella sinistra del PCI e in parte di quella che fu
definita “nuova sinistra”, tra ricerca strategica e prospettiva
politica nella ricerca della chiave di volta adatta per connettere
astratto e concreto: con il concreto molto spesso declinato con una
venatura spiccatamente politicista.
Al dunque: rispetto al
carteggio Luporini/Ingrao oggetto dell’articolo di Critica Marxista
e dell’articolo di Olivetti, ci troviamo nella fase
dell’opposizione alla svolta occhettiana.
A mio giudizio l’operato
della sinistra comunista in quel momento storico rappresentò un vero
e proprio punto di sublimazione nella discrasia astratto / concreto
ben descritta da Luporini nelle sue lettere.
Il punto centrale di
questo discorso ci fa risalire, ancora una volta, al discorso del
“gorgo” pronunciato proprio da Ingrao al seminario di Arco (se
non ricordo male eravamo nella prima settimana di ottobre del 1990).
In quel seminario si
sviluppò infatti il più serio tentativo svolto dalla sinistra
comunista di tenere assieme il piano strategico e quello
immediatamente mobilitante: un tentativo concretamente sviluppato
nella relazione di Lucio Magri, “Il nome delle cose”.
Attorno a quella
piattaforma la sinistra comunista (che pure aveva accettato la
presenza di influenze diverse, senza riuscire a collegarsi con altri
settori che pure si erano schierati con la proposta della “svolta”)
non riuscì a trovare la necessaria, indispensabile, tensione
unitaria, a riconoscersi nella sforzo che era richiesto nella
relazione.
La divisione tra il
“gorgo” erroneamente scambiato per il PDS (su questo punto anche
Luporini pare interrogarsi dubbioso) e l’idea dell’autonomia
intesa in senso esclusivamente organizzativamente identitaria non ci
fu spazio per una proposta che, attorno a quella relazione di Magri,
ponesse non solo la questione della necessaria unità dell’area di
opposizione alla svolta ma quella del tipo di relazione con il resto
di quello che era ancora parte del PCI e aveva accettato il principio
della liquidazione del partito.
Questo perché di
“liquidazione” del partito sarebbe stato necessario parlare e non
di semplice trasformazione ponendo in quel modo il problema alle
altre componenti: quella incerta verso la “cosa” e quella che
la”cosa” l’avrebbe accettata pur pensando alla resa definitiva
della specificità comunista in Italia e al conseguente approdo
all’area socialista, in quel momento – ricordiamolo –
rappresentata da un craxismo già in evidente crisi e non soltanto
per l’incombenza di Tangentopoli.
Nella discussione di Arco
emersero due limiti: una visione strategicamente debole rispetto ai
mutamenti già in atto sul piano internazionale (una certa timidezza
ad affrontare la visione, in quel momento dominante della “fine
della storia”) e un eccesso di “autonomia del politico”
riferita al quadro interno.
Eccesso di “autonomia
del politico” che dettò principalmente la scelta di formare
Rifondazione Comunista nell’idea di un’autosufficienza
progettuale che invece rivelò presto la corda portando il partito
della rifondazione a subire una serie di rotture che ne dimostrarono
tutta la fragilità dell’impianto complessivo e della non
continuità con la storia della sinistra comunista italiana, fino
alla segreteria Bertinotti e al “movimentismo dell’apparire”.
Quel che è certo è che
ad Arco finì con il consumare la propria storia quella “sinistra
comunista” nata già dentro la segreteria togliattiana nella
ricerca dell’incontro tra il comunismo italiano ( a partire
dall’elaborazione conseguente alla parziale pubblicazione dei
Quaderni) e la rapida trasformazione avvenuta in esito dell’irrompere
della modernità del consumismo, del modifica dei tempi e dei ritmi
di lavoro, con l’emergere del terziario e di ceti medi in cerca di
una dimensione della cultura e del costume diversi, a partire dai
temi della condizione di genere e della struttura della famiglia, da
quelli in uso nell’Italia degli anni’40.
Oggi nel vuoto della
politica della “microfisica del potere”, nell’egemonia di un
individualismo possessivo (e autoproprietario), di un dominio della
tecnica che sconfina nell’affidare all’algoritmo l’insieme
delle nostre scelte non solo economiche ma addirittura morali,
sentiamo fortemente l’assenza di una riflessione posta al livello
dell’individuare la nuova qualità delle contraddizioni in atto
definendole dentro un progetto strategico di cambiamento.
Forse è proprio attorno
a questo tema che il discorso potrebbe essere “ancora aperto” a
patto di non limitarci alla rincorsa tra astratto e concreto.
Proprio Ingrao ricorreva,
nell’occasione delle lettere contenute nel carteggio qui ricordato,
all’idea del “concetto – processo”: forse questo potrebbe
rappresentare un punto sul quale misurarci per tentare
collettivamente di capire se sul serio potrebbero aprirsi ancora
spazi di cambiamento in questa società e in questo agire politico.
Qui e ora, nel possibile del concreto mobilitante.