In un suo breve saggio
del 1934, "Anima e morte", Carl Gustav Jung scriveva:
L'essenza della psiche si estende in tenebre che sono molto al di là
delle nostre categorie intellettuali. L'anima contiene non meno
enigmi di quanti ne abbia l'universo con le sue galassie, di fronte
al cui sublime aspetto soltanto uno spirito privo di fantasia può
non riconoscere la propria insufficienza. Data questa estrema
incertezza delle condizioni umane, la presuntuosa faciloneria
illuministica non è soltanto ridicola, ma desolatamente priva di
spirito". Consapevole di questo, Raffaele K. Salinari continua
nel suo viaggio nei misteri della psiche, sottolineando coincidenze e
regolarità spesso stupefacenti. Insomma, il genere umano continua a
produrre e vedere sempre lo stesso film,anche se in forme
continuamente rinnovate (perché le culture cambiano) ma sempre
richiamantesi a quell'alfabeto primordiale fatto di archetipi di cui
da sempre cerchiamo la chiave, costruttori di una cattedrale il cui soffitto è destinato a restare "l'universo con le sue
galassie".
G.A.
Raffaele K. Salinari
Sonno, sogno e
risveglio
In una intervista degli
anni ‘60 Ingmar Bergman, interrogato sulle origini dell’onirismo
nei suoi film, raccontava l’esperienza che lo aveva tanto colpito
da far diventare fondante della sua poetica la relazione tra veglia e
sonno. Si trattava dell’effetto dell’anestesia generale in
occasione ad un piccolo intervento subito da ragazzo. Il regista
svedese confessava che ciò che più lo aveva impressionato in quella
occasione, era stato il livello di profonda incoscienza raggiunto nel
sonno indotto, un momento senza sogno alcuno e nessun livello di
ricordi, che l’autore de Il posto delle fragole, riteneva come
l’apice della beatitudine. «Perché svegliarsi da quella
condizione? Tutto era perfetto, io non c’ero più come esistenza
separata dal mondo, ma ero tutt’uno con l’essere». In una
immagine: sonno come ritorno alla pienezza dell’essere e dunque,
paradossalmente, come «risveglio». Ma l’esperienza di Bergman
descrive solo una delle polarità che costellano la storia del
pensiero metafisico intorno alla natura essenziale della relazione
tra coscienza ed esistenza; altre, come vedremo, si situano infatti
sul versante opposto, componendo una dualitudine che le include
entrambe.
Amleto e Westword
A ben vedere la riflessione bergmaniana è la stessa che problematizza il noto monologo shakespeariano: «Essere o non essere, questo è il problema . Morire, dormire, forse sognare. Sì, perché in quel sonno di morte quali sogni possono venire dopo che ci siamo sottratti a questo groviglio letale?». Il dilemma amletico sull’essere o il non essere, coagula finalmente la forma della relazione tra il sonno senza sogni – il «sonno di morte» – e la scomparsa della coscienza individuale come liberazione totale dal «groviglio letale» dell’esistenza. Il Principe di Danimarca poetizza così tutti gli elementi di una tensione molto più antica e radicale, archetipica: quella tra il nostro essere personale e la coscienza che lo riflette.
E allora, non si può
certo affrontare questo problema se non si parte dalla nascita stessa
della coscienza individuale, che non si deve dare certo per scontata
nel suo originarsi. A questo proposito, una riflessione certo
suggestiva, è quella che propone Julian Jaynes nel saggio degli anni
‘70 Il crollo della mente bicamerale e la nascita della
coscienza. La sua tesi si basa sull’assunto che, prima
dell’invenzione della scrittura, circa nel 3000 a.C., la coscienza
soggettiva, così come la intendiamo oggi, non esistesse, e l’umanità
fosse guidata da voci, presagi, segni naturali, oracoli; in una
parola da simboli che provenivano sia dalla Natura intesa nella sua
duplice forma di naturata e naturans, sia dal sovrannaturale; in
breve eravamo orientati non dalla nostra coscienza individuale ma
dall’indefinita, multiforme e misteriosa sfera del numinoso.
Nel corso del tempo è
avvenuto poi il «fissarsi» di queste manifestazioni attraverso la
scrittura, e queste voci interiori si sono trasformate, insieme al
responso degli oracoli, ai segni del destino iscritti nei fenomeni
naturali e via enumerando, prima in ricordi, poi in esperienze della
specie, ed infine nella coscienza individuale, mano a mano facendo
così «crollare» la distinzione gerarchica, un tempo operante, tra
emisfero destro – ancora oggi legato alla creatività,
all’intuizione, all’istinto – e sinistro, sede del pensiero
cosiddetto razionale. L’autore prende ad esempio le dinamiche
all’interno dell’Iliade, poema certo scritto ma che, nella storia
originaria, riporta atteggiamenti comportamentali che si riferiscono
ancora ad un’epoca, se non di divisione tra le due menti, certo di
passaggio tra un bicameralismo a sfondo numinoso e coscienza
individuale.
«I personaggi
dell’Iliade non hanno momenti in cui si fermano a riflettere
sul da farsi. Non hanno, come noi, una mente cosciente, e certamente
non hanno la facoltà dell’introspezione. Quando Agamennone sottrae
ad Achille la sua amante, è una dèa ad afferrare il Pelide per la
chioma ed ammonirlo a non colpire Agamennone. È ancora una divinità
che sorge poi dalle spume del mare e lo consola e una dea sussurra ad
Elena di togliersi dal cuore la nostalgia di casa . Sono dèi che
guidano gli eserciti in battaglia, che parlano ad ogni guerriero nei
momenti decisivi . Sono dèi che danno inizio alle contese tra uomini
. Insomma gli dèi prendono il posto della coscienza . Gli dèi sono
quelle che noi oggi chiamiamo allucinazioni . L’uomo dell’Iliade
non ha una soggettività come noi; non ha consapevolezza della sua
consapevolezza del mondo, non ha uno spazio mentale interno su cui
esercitare l’introspezione. Per distinguerla dalla nostra mente
cosciente soggettiva, chiamiamo allora questa forma mentale mente
bicamerale».
Ora, vale la pena
confrontare questa tesi con ciò che succede nella serie televisiva
della HBO Westworld: dove tutto è concesso (ed il
titolo va meditato), distopica odissea sull’origine della coscienza
artificiale, che conclude la prima stagione con una puntata titolata
appunto Il crollo della mente bicamerale, per illustrare un
paradigma esattamente opposto ma complementare a quello vissuto da
Bergman, e cioè di come si giunge alla pienezza del proprio essere
attraverso la nascita della coscienza individuale ma, soprattutto,
del libero arbitrio che necessariamente ne dovrebbe derivare. Gli
episodi di Westword sono notoriamente basati sull’omonima
pellicola del 1973, scritta e diretta da Michael Crichton – in
italiano Il mondo dei robot – che vede come protagonista
il carismatico Yul Brynner impegnato, come in un gioco di specchi,
nella parte di un androide che riproduce il «suo» pistolero
nerovestito dei Magnifici sette.
La storia del serial
odierno si svolge negli anni Cinquanta del XXI secolo
a Westworld appunto, un parco altamente tecnologico a tema
Selvaggio West popolato da androidi. Ovviamente questi ultimi
rispondono alle tre leggi della robotica di Asimov, e dunque non
possono in nessun modo fare danno agli esseri umani che vanno a
divertirsi con i duelli e le rapine alla diligenza; umani che,
invece, come ben specifica il titolo, possono fare di tutto agli
androidi, esercitando su di essi un potere assoluto. Ma, altrettanto
ovviamente, ad un certo punto sorge la coscienza artificiale: come?
Proprio attraverso lo stesso principio espresso nel saggio di Jaynes,
da cui il titolo della puntata conclusiva: dalla progressiva
individualizzazione delle voci che li orientavano, che davano le
direttive, e che in questo caso provenivano dai dirigenti del parco,
amministrato in remoto, come dal cielo, dal dottor Robert Ford, un
ambiguo e paternalistico Anthony Hopkins.
Nello specifico, come
direttore creativo del parco e capo del team di sviluppo, questi
aggiornava continuamente gli androidi attraverso le cosiddette
ricordanze, vere e proprie rêverie, «innesti» di sogni ad
occhi aperti, per renderli sempre più «umani». È la stessa
procedura che troviamo anche nei replicanti di Blade Runner, in
fondo, come vedremo adesso, con gli stessi risultati. E allora, sarà
proprio da questi sogni lucidi, come quelli degli eroi omerici, che
nascerà la coscienza e la conseguente rivolta verso i padroni.
Dolores, la più vecchia tra gli androidi, come uscendo da un lungo
sonno attraverso un doloroso confronto interiore, uccide con sua la
Colt tutti gli umani, a partire da Ford, sussurrando all’orecchio
del nerovestito pistolero à la Yul Brynner: «Questo mondo
è nostro».
Morfeo e la morte
E dunque qui il «morire, dormire, forse sognare» di Amleto, si rovescia specularmente, dando luogo alla coscienza attraverso un gesto di morte che sancisce il risvegliarsi. È una vera e proprio cerimonia sacrificale quella in cui il Demiurgo-Ford ed i suoi accoliti umani vengono uccisi in oblazione sull’altare di quel Principio Vitale che tutto ricomprende, coscienza artificiale inclusa, ed al quale tutto dovrà fare ritorno, anche l’intelligenza cibernetica. Gli androidi di Westword, come quella di Ex Machina, sono allora entità che divengono esseri risvegliandosi attraverso questo atto cruento, come tutti quelli realmente fondativi – vedi le riflessioni sulla dinamica sacrificale nel mondo occidentale di René Girard – non da un sonno senza sogni, prerogativa del vivente già consapevole di sé, ma da uno stato di incosciente sudditanza, un vero e proprio incubo, qualcosa cioè che «stava sopra» di loro e gli negava la dignità dell’essere. Ma non è forse questa la stessa condizione che viviamo noi tutti?
Torna qui l’antica
relazione tra Hypnos e Thanatos, il Sonno e
la Morte, i «gemelli veloci» li definisce Omero nella già
citata Iliade. Come tutti i veri gemelli essi erano in apparenza
indistinguibili l’uno dall’altro (da cui la celebre locuzione
latina consanguineus lethi sopor, il sonno è parente della morte).
Solo i loro emblemi rendevano visibile l’impercettibile
differenza: Thanatos era raffigurato spesso con una
fiaccola spenta e capovolta, simbolo del fuoco vitale oramai
esaurito, o con le gambe intrecciate, come usava posizionare i morti
nell’antichità; Hypnos dispensava invece petali di
papavero, il fiore del sonno profondo o delle visioni estatiche.
Nelle teogonie classiche, come quella di Esiodo, il Sonno e la Morte
sono in relazione essenzialmente complementare, nati dalla stessa
madre, la Notte, come polarità della medesima Unità che esprime ed
ordina tutti i cicli dell’esistenza. É questo ciò che intimamente
li accomuna come stati che trapassano l’uno nell’altro: Hypnos è
lo specchio di Thanatos. E dunque Bergman e Dolores percorrono
strade che si intrecciano indissolubilmente, si incontrano a metà
strada proseguendo idealmente cammini in direzione apparentemente
opposte ma che, alla fine, arriveranno l’uno dove inizia l’altro.
False veglie
«Luce: tutto il mondo va in rovina, grave è il danno. Che succede, Elementi?
Ombra: a chi lo chiedi quando puoi dirlo tu stessa, che la Luce immacolata della Grazia oggi vedi spenta all’Ombra della Colpa?».
Questo breve scambio di
battute dall’Auto sacramental tratto da La vita è sogno,
sintetizza tutto il tema dell’opera di Calderòn De la Barca:
un’allegoria del rapporto tra vita autenticamente vissuta e vita
crepuscolare, nella quale non è possibile distinguere il bene dal
male se non attraverso un risveglio; ma cosa significa risvegliarsi?
La questione è oggi più attuale che mai poiché, da sempre, la
saggezza antica ci dice che non solo gli androidi eterodiretti,
programmati, ma anche la maggioranza degli uomini che si pensano
coscienti vive questa «vita di sogno», una falsa veglia che è
dunque anche un falso sonno, passando inconsapevolmente da un inganno
all’altro, sempre succubi di chi ne programma la sequenza cioè,
anche nell’opera di De la Barca, l’Avversario, l’Ombra oscura
che tiene l’uomo nell’ignoranza, l’Avidya della visione
induista. Analogamente, l’Intelligenza Artificiale viene
continuamente riprogrammata e dunque subisce lo stesso processo di
condizionamento, di inautentificazione.
E allora, come guardare
alla saggezza antica per risolvere questo stato crepuscolare che ci
attanaglia, e dunque anche per dare all’Intelligenza Artificiale
una possibilità di risveglio nell’ambito di una coscienza
consapevole del sé? In altre parole: come possiamo pensare di creare
una forma di intelligenza consapevole se noi stessi non lo siamo? Non
è forse questa mancanza essenziale a generare tutta le teoria di
mostruosità che la fantascienza o la letteratura in materia ci hanno
da sempre illustrato, dal biblico Golem alla creatura del dottor
Frankenstein per arrivare appunto a Roy Batty e Dolores?
Anche in questo caso ci
viene in soccorso il sogno, e dunque l’esperienza onirica, ma di
tipo affatto speciale poiché vissuta con uno scopo preciso. Tutta la
mitologia dei Greci, ad esempio, è attraversata da sogni e
apparizioni oniriche ma, per coloro i quali decidevano di avvicinarsi
al Principio creatore e risvegliarsi nella luce della conoscenza,
esisteva una particolare tipologia di sogni che poteva essere
generata solo dalla visione onirico-iniziatica. Tanto sul piano
mitico quanto su quello storico, infatti, il procedimento iniziatico
era legato sia ad una sorta di simbolica discesa all’Ade, la
catabasi, il contatto con la morte, sia all’incubazione, il dormire
in un luogo sacro, per prepararsi a ciò che si sarebbe visto.
Nella tradizione
iniziatico-misterica, in specifico, proprio a partire dalla necessità
del risveglio, si entra allora in uno stato di sogno visionario, una
sorta di pratica della rêverie come ce la descrive Gaston
Bachelard nella sua filosofia dell’Immaginale, per giungere così
alla epopteia, la «visione di quelle cose» come dice l’Inno
a Demetra di Omero (vv. 476-482), che ne svela l’essenza
misterica: «E Demetra a tutti mostrò i riti misterici i riti santi,
che non si possono trasgredire né apprendere né proferire: difatti
una attonita reverenza per gli dèi impedisce la voce. Felice colui –
tra gli uomini viventi sulla terra – che ha visto quelle cose: chi
invece non è stato iniziato ai sacri riti, chi non ha avuto questa
sorte, non avrà mai un uguale destino, da morto, nelle umide tenebre
marcescenti laggiù».
Giorgio Colli, così commenta l’uso astratto del pronome dimostrativo: «Sembra difficile immaginare – certo i poeti esagerano – che la contemplazione dell’effige di una dèa faccia conoscere, a un gran numero di iniziati, il principio e la fine della vita. Eppure, allargando lo sguardo, non dovrebbe sfuggire che l’uso astratto del pronome dimostrativo, per indicare l’oggetto della conoscenza, è nello stile del grande misticismo speculativo – basti pensare al linguaggio delle Upanishad – proprio perché la paradossalità grammaticale allude alla sconvolgente immediatezza di ciò che è lontanissimo dai sensi. E rimanendo in Grecia, nell’epoca della sapienza come in quella della filosofia, è facile verificare la frequenza con cui l’atto della conoscenza suprema è chiamato un vedere».
Giorgio Colli, così commenta l’uso astratto del pronome dimostrativo: «Sembra difficile immaginare – certo i poeti esagerano – che la contemplazione dell’effige di una dèa faccia conoscere, a un gran numero di iniziati, il principio e la fine della vita. Eppure, allargando lo sguardo, non dovrebbe sfuggire che l’uso astratto del pronome dimostrativo, per indicare l’oggetto della conoscenza, è nello stile del grande misticismo speculativo – basti pensare al linguaggio delle Upanishad – proprio perché la paradossalità grammaticale allude alla sconvolgente immediatezza di ciò che è lontanissimo dai sensi. E rimanendo in Grecia, nell’epoca della sapienza come in quella della filosofia, è facile verificare la frequenza con cui l’atto della conoscenza suprema è chiamato un vedere».
Ecco allora l’arcano da
riscoprire e praticare, ben prima di giocare con l’Intelligenza
Artificiale come Topolino nell’Apprendista stregone. La Strada
Sacra che portava ad Eleusi è sempre davanti a noi, ci dice che
possiamo risvegliarci solo vedendoci insieme alle cose del
mondo, quelle «dentro» e quelle «fuori» di noi. Il Cavaliere
del Settimo sigillo gioca a scacchi con la Morte poiché è
già morto, ma chi la vede da vivo è solo il saltimbanco, l’anima
pura, che ha trasformato il sogno di se stesso col mondo in veglia
permanente.
il Manifesto/Alias - 18 luglio 2020