Nel 1929 la situazione di Bordiga si fa precaria. Per aver difeso Trotsky viene espulso dal collettivo comunista di Ponza. Dall'estero si organizza la sua fuga e l'espatrio in Francia, ma Bordiga inspiegabilmente rifiuta la proposta.
Giorgio Amico
7. Bordiga, Gramsci e la "questione Trotsky"
La svolta dell'Internazionale comunista e la nascita dello stalinismo comportarono profondi mutamenti anche nel piccolo mondo dei confinati. Le strutture comunitarie che si erano create a Ustica e a Ponza, biblioteche, mense, corsi di studio, risentirono delle nuova situazione. Mentre fino a quel momento erano state aperte a tutti, indipendentemente dall'appartenenza politica, la teoria del socialfascismo fa si che i comunisti si rinchiudano in un isolamento settario. I corsi di studio diventano così scuole di partito, riservate ai militanti, e con una gestione sempre più rigida sia da un punto di vista ideologico che organizzativo. Nascono i collettivi comunisti che si considerano vere e proprie sezioni clandestine del partito, delle “comunità totali” [1], la cui principale attività diventa la denuncia ossessiva delle deviazioni dei “sinistri”, come vengono definiti i seguaci di Bordiga e la loro emarginazione che di fatto equivale ad una espulsione. La stessa cosa avviene nelle carceri. A Turi Gramsci, che non nasconde il suo dissenso profondo da quanto avviene in Unione Sovietica e dalle scelte del partito ormai saldamente diretto da Togliatti, è progressivamente isolato dal collettivo dei detenuti comunisti.
“Noi socialisti – ricorda Sandro Pertini - eravamo dei socialfascisti. Non per Gramsci, poiché egli prevedeva che un giorno vi sarebbe stata un’alleanza tra i socialisti, i comunisti e tutte le forze antifasciste. E riteneva che fosse un grave errore quello di certi suoi compagni che ancora persistevano su questa posizione nei nostri confronti […] L’amicizia concessami da Gramsci assunse per me un significato, oltre che sentimentale e umano, anche politico. […] Queste amicizie gli venivano rimproverate dai compagni comunisti che erano nello stesso carcere. Si sa, infatti, che eccettuato qualcuno, ci fu un forte dissenso politico in quel periodo fra Gramsci e questo gruppo di comunisti. Gramsci se ne rammaricava con me: "Non hanno capito la mia opposizione", diceva. Mi risulta che questo gruppo fece pervenire poi al centro estero del partito a Parigi una relazione sulle posizioni politiche di Gramsci, quasi denunciandolo come un deviazionista; la stessa sorte del resto capitò a Terracini e alla Ravera che al confino erano considerati fuori dal partito. Gramsci soffriva molto in quella situazione. […] ”. [2]
Un isolamento crescente che avrà il suo culmine nel 1933 con una vera e propria aggressione fisica [3] e che aggrava sensibilmente lo stato di salute di Gramsci già fortemente compromesso sul piano neurologico:
“La fase più acuta della crisi nei rapporti tra Gramsci e il partito, da non confondersi con una rottura formale o con l'interruzione dell'azione di solidarietà, si delinea negli ultimi mesi del 1932, per raggiungere il momento più drammatico nel febbraio 1933: in questa crisi si intrecciarono inestricabilmente motivi politici e personali, il riemergere dei dubbi e delle ossessioni del passato (il significato nascosto nella lettera di Grieco del 1928) e il crescente senso di isolamento e anche di estraneazione di Gramsci nei confronti del Pcd'I, ma anche l'inarrestabile aggravamento delle condizioni di salute, il timore del venir meno delle proprie forze di resistenza, la sensazione dell'irreversibile dissoluzione dei rapporti con la moglie Giulia e dei legami familiari.” [4].
Se questa era la situazione di Gramsci, possiamo immaginare quale fosse quella di Bordiga. Camilla Ravera nelle sue memorie ci ha lasciato una testimonianza vivissima di come la situazione nel collettivo comunista di Ponza si fosse fatta tesa. Riprendendo quanto riferito da Barbara Seidenfeld, la compagna di Pietro Tresso, inviata a Roma per verificare lo stato di funzionamento delle strutture clandestine del partito in Italia centrale e meridionale, Camilla Ravera scrive:
“Un compagno proveniente da Ponza aveva portato la notizia di un contrasto sorto in quell'isola tra la maggioranza dei confinati e Bordiga. Il segretario della federazione di Roma non era mai stato bordighista e aveva sempre difeso la politica del partito contro le posizioni bordighiane. Ma diceva di disapprovare il metodo seguito a Ponza, dove i compagni che sostenevano la politica del partito non si preoccupavano di convincere gli oppositori, ma trattavano come avversario del partito chiunque manifestasse il desiderio di discutere. Alcuni confinati avevano, in proposito, scritto una lettera al partito, denunciando quei metodi erroneamente introdotti nei collettivi di confino. L'isolamento produceva anche a Ponza il settarismo”. [5]
In realtà a produrre questi tristi effetti non era tanto l'isolamento dei confinati, quanto la stalinizzazione crescente del partito. Comunque Bordiga, non meno duro dei suoi avversari, non se ne curò più che tanto o almeno non lo fece vedere. Anzi, come ricorda Leo Valiani, ostentò ancora di più il suo intransigente dissenso rispetto alla politica del partito:
“Il capo del comunismo di sinistra, Amadeo Bordiga, aveva un suo fascino personale, ma politicamente era chiuso in una dura settaria ortodossia”. [6]
Incurante degli attacchi e delle calunnie che iniziavano a circolare, Bordiga continuò a propagandare le sue idee. Tenne ancora, per i compagni che si riconoscevano nelle sue posizioni, un corso sul Libro I del Capitale, pubblicato poi nel dopoguerra in volume con il titolo Elementi dell'economia marxista. Ma non si limitò a questo. Nel febbraio del 1929, nel collettivo comunista di Ponza, fu discussa e messa ai voti una risoluzione dell'Internazionale contro Trotsky considerato un traditore e un transfuga del movimento comunista. 102 militanti si dichiararono favorevoli, mentre i contrari furono 38, con alla testa Bordiga che fu immediatamente espulso dal collettivo.
Intanto all'estero, in Francia e in Belgio i suoi seguaci, fra cui spiccano Ottorino Perrone e Enrico Russo, si erano radicati fra gli operai italiani emigrati per motivi politici e facevano uscire una nuova serie della rivista Prometeo. Tramite canali rimasti sconosciuti riescono a contattare Bordiga a cui propongono di espatriare e di raggiungerli a Parigi per affiancare Trotsky e la Opposizione internazionale nella battaglia ingaggiata contro Stalin e la direzione dell'Internazionale comunista. A questo proposito Perrone aveva preso contatto direttamente con Trotsky e concordato con lui una linea d'azione. Si sa poco di questo episodio, ancora in larga parte da ricostruire, ma secondo le ricerche di due storici italiani:
“Nel marzo 1929 Trotsky aveva già convenuto con l'avvocato Maurice Paz, in occasione di un soggiorno di quest'ultimo a Prinkipo in Turchia, di garantire un soccorso a Bordiga e alla sua famiglia. E il 10 maggio di quello stesso anno, nel chiedere all'amico Alfred Rosmer che cosa fosse stato fatto fino a quel momento per il comunista italiano, comunicava di voler coprire la sua parte delle spese «con le somme che sono a vostra disposizione». Il figlio di Trotsky consegnò in effetti a marsiglia ai militanti della Frazione il denaro per l'acquisto di un motoscafo col quale tentare la fuga di Bordiga da Ponza. L'impresa non era certamente impossibile; basti pensare che un'evasione simile sarebbe riuscita a Lussu, Rosselli e Nitti nel luglio dello stesso anno”. [7]
Dunque Trotsky, tramite Alfred Rosmer e il figlio Lev Sedov, si era attivato per coprire le spese necessario a far fuggire Bordiga dall'Italia e a portarlo in Francia per fargli assumere il ruolo che gli competeva, per la sua storia di fondatore e principale esponente del Pcd'I nel 1921, oltre che per la fama che si era conquistato a livello internazionale soprattutto al VI Esecutivo Allargato dell'Internazionale nel febbraio 1926 quando in un drammatico faccia a faccia con Stalin aveva preso le difese di Trotsky e inchiodato il futuro “padre dei popoli” alle sue responsabilità. Ma l'impresa fallì perché Bordiga non ne volle sapere.
“In una riunione tenutasi a Bruxelles, i dirigenti della Frazione espressero un parere favorevole all'operazione. Ma, come ha testimoniato Bruno Bibbi, «Amadeo respinse la nostra proposta e non se ne fece nulla». Sembra ch'egli avesse risposto con una cartolina sulla quale aveva disegnato un granchio con aggiunta una frase molto eloquente: «Impossibile raddrizzare le gambe»”. [8]
Bordiga dunque non credeva più alla possibilità di una battaglia aperta contro lo stalinismo, ma neppure contro il fascismo. Leo Valiani ha testimoniato come Bordiga giudicasse “del tutto inutile mandare al tribunale speciale dei militanti per diffondere dei manifestini nei quali si dicevano cose che considerava false, cioè si esaltava l'Unione Sovietica”. [9]
Per Bordiga già dal 1929 i giochi erano fatti: la rivoluzione era sconfitta, Stalin aveva trionfato in URSS e il fascismo in Italia. Fedele ad un marxismo ultradeterministico, riteneva che non si potesse fare altro che attendere l'avvento di tempi migliori. L'attivismo per lui era una falsa risorsa. E questo valeva sia per il Partito comunista ufficiale che per i suoi seguaci della Frazione all'estero. Quanto poi abbia giocato in questa decisione di tirarsi fuori la già precaria situazione della moglie Ortensia e dei figli che avrebbe dovuto abbandonare al loro destino non è dato sapere. Bordiga fu sempre riservatissimo su quanto atteneva alla sua sfera personale. Considerata la gravità della situazione e l'attaccamento di Amadeo alla moglie e ai figli, si può comunque ritenere che il fattore familiare condizionò non poco la sua scelta. Tuttavia alla base di tutto, stava principalmente questa sua visione pessimistica che rendeva del tutto inutile, se non addirittura assurdo, sacrificare la propria vita e quella dei propri cari per una causa ritenuta ormai persa. Una decisione umanamente comprensibile. Sconcertante se considerata da un punto di vista politico, tenuto soprattutto conto del ruolo di primo piano fino ad allora svolto da Bordiga nel movimento comunista italiano e internazionale. Un dato è comunque certo: messe così le cose, la sua espulsione dal Partito era oramai solo questione di tempo, e di fatto arrivò puntuale, ma di questo parleremo più avanti.
Note
1. Giovanna Delfini, 1927: Nello Rosselli e Ustica, Lettera del Centro Studi e Documentazione Isola di Ustica, n. 35-35, gennaio-agosto 2010, p. 6.
2. Mimma Paulesu Quercioli (a cura di), Gramsci vivo nella testimonianza dei suoi contemporanei, Feltrinelli, Milano, 1977, pp. 210-214.
3. Nel testo citato Pertini ricorda l'episodio, ma smentisce che gli autori siano stati i comunisti. Scrive Pertini: “Durante la mia permanenza a Turi accadde anche quell'increscioso episodio del sasso lanciato contro Gramsci. E a questo proposito voglio precisare subito una cosa: non è vero che siano stati i comunisti a lanciarlo. La verità è questa: ci fu una nevicata e i detenuti durante il passaggio tiravano palle di neve. Un gruppo prese di mira Gramsci che si rifugiò in un angolo per evitare di essere colpito dai loro tiri. A un certo punto una palla si infranse sul muro, al quale Gramsci si appoggiava, e ne uscì fuori un sasso. Io gli ero accanto e gli udii dire: "Avevano messo un sasso nella palla di neve per colpire me". Qualcuno più tardi ha affermato che gli autori del disgustoso gesto furono i comunisti. Io affermo che non è vero. Fu un altro gruppo di detenuti ed ormai è inutile dire quale fosse la loro qualità politica”.
4. Claudio Natoli, Gramsci in carcere: Le campagne per la liberazione, il partito, l'Internazionale (1932-1933), Studi storici, anno 36, n. 2, aprile-giugno 1995.
5. Camilla Ravera, Diario di trent'anni 1913-1943, Editori Riuniti, Roma, 1973, p. 438.
6. Leo Valiani, Tutte le strade conducono a Roma, il Mulino, Bologna, 1995, p. 67.
7. A. Peregalli- S. Saggioro, Amadeo Bordiga, cit., pp. 195-196.
8.Ivi, p. 196.
9. Leo Valiani, Sessant'anni di avventure e battaglie, Rizzoli, Milano, 1983, p. 38.
7. Continua