Dal 1930 Amadeo Bordiga rifiutò ostentatamente ogni rapporto con la politica. Un atteggiamento destinato a durare fino alla caduta del fascismo.
Giorgio Amico
9. Il rifiuto ostentato della politica: una resa al fascismo?
Liberato dal confino, Amadeo Bordiga ritorna a Napoli. “Da allora, per un quindicennio, sul quale la documentazione è pressoché inesistente, si astenne scrupolosamente dalla politica”, si legge nella ricchissima scheda biografica dell'Istituto Treccani. [1] Un comportamento difficilmente comprensibile in un personaggio che fino ad allora aveva vissuto di politica ed ancora di più in un comunista. Per i bordighisti, che infatti ne trattarono sempre poco, il ritiro di “Amadeo” dalla politica è sempre stata fonte di imbarazzo. Qualcuno, addirittura, si è sentito in dovere di difenderne, “a prescindere” avrebbe commentato il napoletanissimo Totò, l'integrità morale, e questo è già di per sé un brutto segno perché indica perlomeno l''esistenza di dubbi sul suo comportamento.
“Bordiga riuscì a mantenere – scrivono ad esempio Corrado Basile e Alessandro Leni – sempre un contegno e un'onestà morale ineccepibili. Egli non accettò mai, come fecero invece molti altri, compromessi anche minimi con il fascismo”. [2]
Una affermazione azzardata su cui è difficile concordare, smentita com'è, oltre che dalle carte di polizia e dalle note degli informatori, anche da testimonianze affidabili. Per tutti gli anni Trenta, come vedremo, Bordiga ebbe intensi rapporti con le autorità di polizia, sia perché convocato per chiarimenti sulle sue attività, sia per sua iniziativa autonoma. In alcune occasioni anche per sollecitare interventi a suo favore. Sempre, in quegli incontri, si premurò di sottolineare che, pur considerandosi ancora un marxista, egli aveva rotto ogni rapporto con la politica e con i suoi vecchi compagni, la cui attività gli era del tutto indifferente. E questo, lo si voglia o no, non si può definire in altro modo che un tacito compromesso con il fascismo. Un atteggiamento che contrasta vistosamente con la fierezza dimostrata da chi in quegli anni bui, arrestato magari anche solo per il possesso di un volantino o di una copia de l'Unità, rifiutava ogni forma di patteggiamento e scontava anni di confino o di carcere. Semplici operai o contadini, modesti compagni di base, spesso quasi del tutto privi di formazione politica, ma consapevoli della necessità di opporsi alla dittatura e fieri della loro militanza. In più di una occasione Bordiga li definirà dei “poveri fessi” che si rovinavano la vita per niente. Certo, Bordiga non fu mai un collaboratore né un simpatizzante dichiarato del regime, ma l'ostentato abbandono di ogni interesse per la politica e il ritirarsi totalmente in una dimensione privata, in una situazione come quella dell'Italia degli anni Trenta rappresentava oggettivamente una atto di resa al regime, l'accettarne la vittoria, riconoscerne in qualche modo la legittimità. Non a torto Franco Livorsi, il primo a pubblicare al di fuori dell'area ristretta degli addetti ai lavori una ampia raccolta degli scritti di Bordiga [3] e a farlo così conoscere al grande pubblico, annota amaramente:
“Nella posizione di totale estraneazione dalla politica propria di Bordiga tra il 1930 e il 1945 c'è, però, qualcosa di più della semplice rinuncia alla politica attiva in fase storica sfavorevole alla rivoluzione: c'è una sorta di assuefazione amara e ironica, ma politicamente grave, alla stessa controrivoluzione fascista”. [4]
Una anomalia che risalta ancora di più se confrontata all'atteggiamento, questo si moralmente ineccepibile, di un suo vecchio compagno di confino a Ponza, il socialista Romita, socialfascista secondo le tesi staliniane, che liberato dal confino, anche lui nell'autunno del 1929, e convocato dal questore di Torino per essere ammonito ufficialmente ad abbandonare l'attività politica, oppose un netto rifiuto con queste parole, diventate un mito per gli antifascisti:
“La legge m'impone di darle atto che lei mi ha fatto l'ingiunzione; ma non d'impegnarmi a sottostarvi. Tanto più che è mia convinzione che il cittadino ha, non solo il diritto, ma anche il dovere di occuparsi di politica”. [5]
Una dichiarazione pagata duramente. Romita, che aveva cercato come Bordiga di riprendere la sua attività di ingegnere, nel 1931 sarà di nuovo arrestato e dopo qualche mese di detenzione prima nel carcere torinese delle “Nuove” e poi a Roma, verrà infine condannato a un nuovo periodo di cinque anni di confino da scontarsi a Veroli, in provincia di Frosinone.
Un suo vecchio compagno, Onorato Damen, rimasto su posizioni coerentemente internazionaliste anche dopo l'espulsione nel 1929 dal partito, più volte arrestato, carcerato per sette anni e per cinque anni al confino, parlerà amaramente di “trauma psico-politico” e di “paura, anche e soprattutto fisica” dovute al crollo totale delle speranze rivoluzionarie riposte nella Terza Internazionale e nella Russia dei soviet:
“La coscienza del crollo della III Internazionale (…) ha operato in Bordiga quel trauma psico-politico che lo accompagnerà per oltre un quarantennio fino alla sua morte: un complesso di inferiorità che lo porterà ad avere paura di metter fuori la testa (…). In questo particolare clima va considerata la sua condotta politica, il rifiuto costante ad assumere politicamente un atteggiamento che potesse qualificarlo responsabilmente. Si sono così susseguiti avvenimenti politici, a volte di importanza storica, che sono passati accanto a questa sdegnosa estraneità, senza eco alcuna (…). Né una parola, né un rigo...”. [6]
Qualunque sia il giudizio che se ne voglia dare, qualunque possano essere state le motivazioni, i fatti sono in sé eloquenti. Bordiga riprende tranquillamente la sua vita a Napoli, ma, pur se ancora formalmente membro del Comitato Centrale del Partito, rifiuta ostinatamente ogni contatto con il PCI e anche con i suo compagni della frazione di sinistra che dalla Francia e dal Belgio tentano inutilmente di riallacciare un legame con lui. Come testimonia Camilla Ravera, dopo l'espulsione dal collettivo comunista di Ponza il suo status politico di militante è praticamente congelato in attesa di chiarimenti:
“Il 25 giugno [1929] Berti scrisse da Ponza alla segreteria del partito, comunicando le decisioni del collettivo. La segreteria ritenne che non si dovesse espellere dal partito Bordiga, mentre egli si trovava al confino. Bordiga era ancora membro del Comitato centrale. Nel comitato centrale, quando egli avesse potuto riprendere contatto con quell'organismo ed esporvi le proprie posizioni politiche, la questione sarebbe stata esaminata e risolta”. [7]
Dunque per il partito “l'affare Bordiga” non è concluso, la Direzione spera ancora di poterlo recuperare se non altro in nome della lotta alla dittatura fascista. Tentativi vengono fatti per stabilire di nuovo un contatto con lui. In particolare, considerati anche i rapporti di intensa amicizia che legavano la sua famiglia a Bordiga, dell'impresa viene incaricato il giovanissimo Giorgio Amendola, che da poco aveva aderito al partito. L'esperienza fu raggelante, tanto che Amendola mantenne per tutta la vita una ostilità profonda verso Bordiga, fino al punto nel 1976 di rifiutare polemicamente di scrivere l'introduzione alla biografia del rivoluzionario napoletano scritta da Franco Livorsi, nonostante questa avesse l'imprimatur del partito e uscisse a cura della casa editrice del PCI. Ricorda Amendola:
«Io posso dare la seguente testimonianza. Avvicinai Bordiga nel 1930, per incarico del centro del partito, per fargli la proposta di espatriare legalmente. Il partito avrebbe assicurato i necessari mezzi tecnici e finanziari... Bordiga respinse, col consueto linguaggio "pesante", l'offerta che gli avevo trasmesso. Dopo l'arresto di Sereni, di Rossi Doria e di un gruppo di operai che avevano ricostruito in alcune fabbriche l'organizzazione comunista (ottobre 1930) Bordiga mi incontrò a piazza Municipio, a pochi passi dalla questura e, rompendo ogni regola cospirativa, davanti alla moglie, la "terribile" Ortensia, mi invitò a non seguire l'esempio di Sereni e di Rossi Doria, quei "poveri fessi che si erano fatti mettere in carcere", aggiungendo che la responsabilità spettava a "quei criminali di Parigi che mandavano i compagni allo sbaraglio". Egli svolse in quel periodo, un'opera di dissuasione dall'attività illegale antifascista”. [8]
Per la Direzione il rifiuto di Bordiga di mettersi a disposizione del partito fu considerato una diserzione, e di fatto lo era. L'espulsione diventava ormai inevitabile.
Note
1. Luigi Agnello, Bordiga, Amadeo, Dizionario Biografico degli Italiani, volume 38, 1988. https://www.treccani.it/enciclopedia/amadeo-bordiga_(Dizionario-Biografico)/
2. C. Basile- A. Leni, Amadeo Bordiga politico, cit., p. 608.
3. Franco Livorsi (a cura di), Amadeo Bordiga, Scritti scelti, Feltrinelli, Milano, 1975.
4. F. Livorsi, Amadeo Bordiga, cit., p. 359.
5. Armando Sessi, Giuseppe Romita, Una vita per il socialismo, Opere Nuove, Roma, 1959, p. 40.
6. Onorato Damen, Bordiga. Validità e limiti d'una esperienza nella storia della “sinistra italiana”, EPI, Milano, 1977, pp. 23-24. Nel 1943, ancora prima della caduta del fascismo, Onorato Damen sarà il fondatore e l'esponente di punta del Partito Comunista internazionalista ancora oggi attivo con il giornale Battaglia comunista e la rivista Prometeo.
7. Camilla Ravera, Diario di trent'anni, cit., p. 441.
8. Giorgio Amendola, Comunismo, antifascismo, Resistenza, Roma, Editori riuniti, 1967, p. 136.
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