Tempo di Covid19,
tempo di isolamento, tempo di letture. Fa piacere trovare questa
mattina sulle pagine di un quotidiano milanese una lettura briosa e
intrigante di un tuo libro.
Diego Gabutti
Debord tifava per la
distruzione. Bruciava le amicizie come un atleta fa con gli zuccheri
Cinquant'anni dopo, tutte le passioni spente, non sono molte le cronache sessantottesche che si possono ascoltare con interesse (o anche solo fingendo dell’interesse). Meno di tutte, poi, le storie dei singoli gruppuscoli o, peggio ancora, del singolo gauchiste (con le sue idee fisse, le sue coazioni a ripetere, il suo profilo migliore, la sua vanitas, la sua rubrica sul Foglio). Passi ancora la cronaca dei tumulti. Questi hanno sempre un loro perché, vale a dire un lato avventuroso, non tanto epico quanto salgariano. Gli eventi, anche di scarso peso storico, come i sogni delle notti novecentesche di mezza estate, si possono raccontare con profitto, e persino suscitando passioni; i personaggi no, per quanto sgomitino e si alzino sulla punta dei piedi e rilascino autografi anche non richiesti e facciano ciao-ciao con la manina.
Siedi al tavolo grande
del racconto storico se sei Napoleone, oppure Beppe Stalin o Gengis
Khan, e non quando sei Daniel Cohn-Bendit o Rossana Rossanda, per
quanti memoir tu scriva, e di quante bellurie siano imbottiti. Detto
questo, c’è almeno un’eccezione: Guy Debord, artista e filosofo, ma soprattutto mitografo di se stesso, l’uomo che fece
della propria vita, e di riflesso anche del Sessantotto parigino, un
trompe l’oeil. Eccezione lui, ed eccezione il suo biografo, Giorgio
Amico, storico del goscismo senza debolezze sentimentali. Amico
racconta la storia di Debord con divertita ammirazione, come Gore
Vidal o Edward Gibbon quando mettono in versi e musica le vite degli
eretici e degli apostati. Non so quanto esemplare, è tuttavia una
storia avvincente, che Amico illustra in bella prosa.
Morto suicida nel 1994,
alcolista, scrittore senza pari, Debord costruì la propria leggenda
consumando e demolendo, lungo la strada, ogni altra leggenda gli si
parasse davanti: surrealismo e dada, per cominciare, e poi anche
tutte le scuole scismatiche che si erano generate da se stesse, per
partenogenesi, nel gran parapiglia della diaspora anarchica e
marxleninista (trotzkisti, consiliaristi, bordighisti, maò-maò
eccetera).
Joker del goscismo,
Debord tifava per la distruzione. Non divideva gli onori (e la
leadership) con nessuno. Bruciava le amicizie (e le affinità
politiche) come un atleta gli zuccheri. Stava all’Internationale
situationniste (il suo contributo alla storia delle iperboli
dell’arte moderna e dell’anarcomarxismo) come il Capitano Nemo al
Nautilus: c’era lui al timone, era sua la teoria, sue le mosse
sulla scacchiera della rivoluzione, e pertanto era sua e sua soltanto
anche la poltrona rococò foderata di velluto rosso con vista sui
fondali oceanici.
Scrisse La società dello
spettacolo, un prodigioso pamphlet (poco letto, anche poco
comprensibile, brillante ma invecchiato, nonché universalmente
diffuso) che ha prestato il suo titolo e un’orecchiatura del suo
contenuto al gergo giornalistico corrente, diventando un orribile e
gessoso tormentone sociologizzante. A Parigi, nel Maggio Sessantotto,
les situationnistes non ebbero il ruolo che Debord avrebbe in seguito
attribuito a se stesso, ma furono situazionisti gli slogan, i
volantini più popolari, i manifesti murali. Situazionista
l’immaginazione al potere, situazionista il vivere senza tempi
morti; e situazionista, soprattutto, il programma minimo: essere
realisti, chiedere l’impossibile.
Guy Debord, nel racconto
di Giorgio Amico, appare nella sua identità più vera, o almeno più
somigliante: quella dell’uomo che uccise Liberty Valance. Come nel
grande film di John Ford, dove James Stewart non è il vero
giustiziere ma soltanto il giustiziere della leggenda, allo stesso
modo il situationniste in capo non fu la vera anima delle barricate
di maggio (come pretese, e come avrebbe senz’altro meritato, per
l’acutezza e l’impazienza con cui annunciò il 68 e i suoi
tumulti molto prima che chiunque altro ne cogliesse i segni). Fu però
in questa veste che entrò nella leggenda. Furono i giornali, nel film di Ford, a «stampare» la leggenda di James Stewart gabellandolo
come l’uomo che aveva ucciso Liberty Valance. Con un piccolo aiuto
da parte dei fan, Debord si stampò la leggenda da solo.
Ciò in una straordinaria
autobiografia (Panegirico. Tomo I e II, Castelvecchi 2013) e in un
bellissimo film d’avant-garde su Parigi e sulla gioventù: In
girum imus nocte et consumimur igni (un famoso palindromo in lingua
latina, che resta immutato comunque lo si legga, da destra a sinistra
come da sinistra a destra, e che in italiano si traduce «giriamo in
tondo nella notte e siamo consumati dal fuoco»). Non fosse che per
questo film e per quel libro il fondatore dell’Internationale
situationniste (nata nel 1957, sciolta nel 1972) s’è guadagnato un
posto di prima fi la (massimo seconda) tra le gloires francesi. Un
po’ ci faceva conto. Come diceva Walter Matthau in È ricca, la
sposo, l’ammazzo: «Se non si può essere immortali, che si vive a
fare?».
Giorgio Amico
Guy Debord e la società
spettacolare di massa
Massari 2017
pp. 322
19,00 €
Italia Oggi, 28 marzo
2020