Lo stalinismo nella sinistra
italiana
Riprendiamo un articolo apparso nel
1988 su Bandiera rossa, organo della sezione italiana della Quarta
Internazionale.
Giorgio Amico
Togliatti, Stalin e la politica
italiana (1944-1947)
Prima parte
Sfrondato dalle
contingenti motivazioni di bassa cucina politica tipiche del partito
craxiano, l'odierno dibattito sul ruolo di Togliatti rievoca
sostanzialmente i termini di una querelle ormai più che
quarantennale.
È
dal marzo 1944, da quando il segretario del PCI appena rientrato in
Italia dall'Unione Sovietica decide, rinunciando alla pregiudiziale
repubblicana e a ogni opzione sul futuro assetto politico e sociale
del paese, di sostenere il vacillante governo Badoglio e
contemporaneamente di operare, con il lancio del "partito
nuovo", una sostanziale rottura con ciò che restava del partito
nato a Livorno ventitrè anni prima, che periodicamente ci si
accapiglia a sinistra su,il perché di una decisione tanto gravida di
conseguenze. A intervalli regolari accade così che qualcuno scopra
in aperta polemica con gli storici comunisti sostenitori dell'origine
autonoma e nazionale della scelta togliattiana, che la svolta è
stata soltanto l'applicazione di una linea decisa a Mosca e che ciò
svaluta irrimediabilmente l'intero corso della politica comunista nel
dopoguerra, anche se da più parti si riconosce che il PCI
togliattiano rappresentò "un elemento oggettivo di modernità e
di stabilità politica in un paese altrimenti incline al ribellismo e
all'anarchismo". (1)
Già
all'inizio degli anni cinquanta lo stesso Togliatti aveva
sprezzantemente negato che la svolta di Salerno fosse da mettere in
rapporto con l'attività della diplomazia sovietica, escludendo
decisamente l'idea stessa che di una svolta si fosse trattato:
"La
politica da me seguita a Napoli allora non fu nient'altro che
l'applicazione concreta di una linea tracciata e battuta dal PCI, nei
confronti dei gruppi monarchici, molto prima del 1944 (...). per
essere ancora più precisi, noi dicevamo chiaramente che avremmo
appoggiato anche un movimento monarchico il quale, eliminando a tempo
Mussolini dal potere, evitasse l'entrata in guerra dell'Italia
oppure, dopo il giugno 1940, facesse uscire l'Italia dalla guerra in
cui era entrata (...). E non riesco nemmeno a capire come potessero
attendersi da noi una politica diversa coloro i quali avessero
seguito con un po' di attenzione la nostra agitazione negli anni
precedenti". (2)
In
realtà le cose stanno diversamente. Certo, la linea di
collaborazione di classe propugnata dal segretario del PCI aveva
radici lontani, risalenti alla svolta, questa si autentica, del VII
Congresso dell'Internazionale comunista e alla politica dei fronti
popolari, compresa l'infausta e controrivoluzionaria applicazione
sperimentata dallo stesso Togliatti, allora fedele esecutore delle
direttive staliniane, nel corso dei tragici eventi della guerra
civile spagnola.
Ma
già nel 1939, con il patto di non aggressione tra la Russia di
Stalin e la Germania di Hitler, la situazione era tanto profondamente
mutata da portare alla denuncia delle corresponsabilità delle
democrazie borghesi (francia e Inghilterra) nello scatenamento di una
guerra di cui, riscoprendo per l'occasione accenti leninisti, veniva
a gran voce denunciato il carattere imperialista e l'estraneità agli
interessi del proletariato. Nonostante Amendola, ancora nei primi
anni sessanta, si ostinasse a sostenere che la politica comunista
dopo Salerno era "la necessaria conclusione di una linea
strategica che già a Parigi, nel marzo del 1940, Togliatti aveva
indicata al partito" (3), il primo documento del centro parigino
dopo l'inizio delle ostilità attribuisce la responsabilità della
guerra sia "all'aggressività degli Stati fascisti" sia
all'imperialismo anglo-francese, difende la validità del patto
russo-tedesco, nega che "questa guerra sia una guerra
democratica e antifascista" ed esorta al sabotaggio, al lavoro
disfattista nelle forze armate e ad azioni di massa "per
trasformare la guerra imperialista in guerra civile". (4)
L'aggressione
nazista alla Russia sovietica muta radicalmente questo quadro: Stalin
che, nonostante le affermazioni successive sulla necessità di
guadagnare tempo per preparare la macchina bellica sovietica, aveva
fino all'ultimo rifiutato, contro ogni evidenza, di prendere in
considerazione la possibilità di un attacco tedesco, è costretto a ripensare radicalmente la sua politica. La sconfitta militare del
fascismo diventa l'obiettivo principale; la guerra perde il suo
carattere imperialistico, mentre si idealizza la democrazia borghese
e si esalta lo sforzo bellico degli Alleati.
Togliatti
"capo unico di Komintern, ormai ridotto a un esercito di
propagandisti" (5), è come al solito il più attento e abile
esecutore della nuova linea staliniana ed esalta dai microfoni di
Radio Mosca le "grandi idee" che stanno alla base
dell'alleanza antifascista:
"Se
vincesse Hitler non ci sarebbe più posto in europa e nel mondo né
per la democrazia, né per il cattolicesimo, né per gli esperimenti
di trasformazione sociale di cui la Russia ha dato e dà un esempio
grandioso. per questo nessuno può e deve stupirsi che l'Inghilterra
liberale e l'America democratica aiutino la Russia sovietica. E i
cattolici non possono essere contro questo aiuto, anzi lo debbono
augurare e sollecitare. Sconfiggere la Germania e distruggere la
barbarie hitleriana non significa altra cosa che continuare l'opera
di civilizzazione dell'umanità che si iniziò nel momento in cui
spuntò sul mondo pagano l'aurora del cristianesimo". (6)
La
via staliniana parallela di Togliatti
Inizia
fare capolino l'atteggiamento di riguardo verso le masse cattoliche
che diverrà col tempo sempre più una costante della visione
politica di un Togliatti che tende progressivamente a trovare una sua
propria "via staliniana", parallela, ma non sempre
coincidente con quella ufficiale. Scrive a questo proposito Fernando
Claudin:
"La
incondizionabilità del PCI nella sua inevitabile subordinazione a
Mosca non era stata tanto incondizionale come quella del PCF nel suo
periodo thoreziano (...). malgrado Togliatti avesse alla fine
inquadrato il Partito comunista nell'ordine cominterniano (...)
l'impronta gramsciana non si era del tutto perduta (...). Con la sua
particolare capacità al compromesso e alla manovra politica, e
approfittando del suo alto incarico, Togliatti cercò di mantenere un
difficile equilibrio tra la subordinazione alla direzione sovietica e
le esigenze - come egli le interpretava - della realtà italiana. nel
periodo che stiamo considerando, la salvaguardia 'dell'equilibrio'
era stata facilita perché tra la strategia staliniana e la visione
togliattiana dei problemi italiani esisteva una coincidenza di
fondo". (7)
Lo
scioglimento del Comintern nel giugno del 1943 rappresenta un esempio
illuminante di questa coincidenza di interessi tra le scelte
sovietiche, sempre più sganciate anche da un punto di vista
meramente formale da ogni preoccupazione internazionalista, e il
progetto che sta gradualmente maturando in Togliatti di una vera e
propria rifondazione su basi nuove, sostanzialmente interclassiste e
nazionali, del Partito comunista italiano. Ciò che interessa Stalin
è rimuovere ogni impedimento che possa ostacolare in qualche modo la
collaborazione con gli Alleati. Il Comintern, anche se da anni in
agonia, rappresenta ancora agli occhi della borghesia internazionale
e delle masse proletarie del mondo intero, il simbolo stesso della
rivoluzione proletaria e il legame diretto con l'Ottobre bolscevico.
È un simbolo pericoloso,
che va rimosso al più presto, come osserva Stalin, per porre fine
alla "calunnia" che l'URSS voglia "ingerirsi nella
vita delle altre nazioni per bolscevizzarle" (8).
Tale
decisione non è tuttavia rapportabile soltanto alle esigenze del
momento: Stalin pensa già ad un dopoguerra di coesistenza pacifica
delle sfere di influenza che verrà sanzionato inseguito dagli
accordi di Yalta. In uno schema simile non c'è posto per la
rivoluzione. Come nota Spriano in un testo sostanzialmente più
problematico rispetto alle sue opere precedenti:
"Ogni
paese a sé preso diventa l'oggetto ma anche il confine del campo
d'azione dei partiti comunisti. internazionalmente, l'orizzonte è
dominato dagli interessi delle grandi potenze e dalla possibilità di
trovare un durevole equilibrio di pace all'ombra di un accordo fra di
esse" (9).
È
proprio in questo momento cruciale che vanno ricercate le origini di
quella "via nazionale al socialismo" che, da sempre
presentata dal PCI come il frutto principale del radicale e sofferto
ripensamento togliattiano dell'intera esperienza staliniana,
rappresenta invece paradossalmente il frutto più maturo di quella
concezione del socialismo in un solo paese, affermatosi
progressivamente con la liquidazione dell'Opposizione di sinistra nel
partito stesso e nell'Internazionale e con le tragiche sconfitte in
Cina, in Germania e in Spagna. Anche il linguaggio muta: cadono i
riferimenti all'autonoma azione del proletariato,
all'internazionalismo, alla stessa contraddizione tra capitale e
lavoro. Il tasto su cui ossessivamente si batte è quello dell'unità
nazionale, della comunanza di interessi fra la classe operaia e una
nazione intesa come concetto metastorico, privo di ogni concreta
valenza di classe.
Nel
dare l'annuncio dell'avvenuto scioglimento dell'Internazionale,
l'Unità commenta:
"Il
Partito comunista d'Italia approva pienamente questa proposta perché
lo scioglimento dell'Internazionale comunista è una misura che ha un
significato politico e storico nettamente positivo per la
classe operaia e per i partiti comunisti di tutti i paesi. Essa ha lo
scopo fondamentale di consacrare, anche formalmente, l'indipendenza
politica dei partiti comunisti e d'incoraggiarli ad adeguare sempre
di più la loro politica, con spirito di iniziativa e di
indipendenza, ai problemi e alle situazioni nazionali dei loro paesi.
essa esprime in modo inequivocabile il fatto che la classe operaia,
di cui i partiti comunisti sono l'espressione organizzata e
cosciente, è assurta in modo definitivo alla funzione di classe
nazionale dirigente, di classe cioè che deve e può affrontare e
risolvere in modo positivo tutti i problemi inerenti alla vita e al
progresso della nazione" (10).
Questo
linguaggio, tuttavia, non significa necessariamente una rottura con
lo stalinismo, né una maggiore autonomia da Mosca. Come testimonia
uno dei protagonisti di quell'epoca, quella svolta, pur tanto carica
di valenze liberatorie e di stimoli positivi per il partito italiano,
non rappresentò assolutamente l'inizio di un'epoca e di un metodo
nuovi per quanto atteneva ai rapporti fra partiti nell'ambito del
movimento comunista internazionale:
"Il
PC dell'URSS restava il punto di riferimento, la 'gerarchia' da
rispettare anche nella nuova dinamica del movimento comunista"
(11).
E
ciò vale anche a livello ideologico, se si considera come la visione
sostanzialmente menscevica della rivoluzione a tappe, che sta alla
base di gran parte della concezione staliniana, rappresenti il brodo
di cultura in cui fermentano i primi germi di quella deviazione
gradualistica e nazionale del marxismo che, via via, per
trasformazioni progressive, verrà a costituire l'essenza del corpus
teorico togliattiano. Così se la riflessione di Togliatti a partire
dalla svolta di Salerno fino a giungere al Memoriale di Yalta,
passando per il periodo dei governi di unità nazionale e per il
trauma del XX Congresso, è qualcosa che via via diventa radicalmente
altro dallo stalinismo, essa non può essere compresa e neppure
pensata a prescindere da questo.
Di
qui un giudizio decisamente negativo sull'operazione, opportunistica
e di scarso respiro politico, con cui un PCI sempre più privo di
identità, che si presenta ora di fronte all'attacco craxiano come
continuista esaltando la scelta nazionale e democratica operata da
Togliatti nel 1944, ma depurandola accuratamente delle sue oggettive
connotazioni staliniane, si lancia ora in una "radicale
ricollocazione storica della Rivoluzione di Ottobre e di tutto il
complesso movimento che da quella rivoluzione ha preso le mosse"
coinvolgendo in un tutto indistinto bolscevismo e stalinismo"
(12).
La
svolta di Salerno e la liquidazione dei gruppi rivoluzionari
Il
27 marzo 1944 Togliatti giunge a Napoli e immediatamente orienta i
quadri del partito in merito alla nuova linea da adottare:
"Ci
mise in guardia - ricorda uno di loro - contro una schematica
immaginazione dei compiti del partito (...). Dalle conversazioni di
Togliatti (...) emergeva chiaramente una cosa: per il nostro paese
non si poneva immediatamente il problema del socialismo" (13).
Togliatti
afferma a chiare lettere che il PCI deve entrare a far parte del
governo e dare il suo apporto a prescindere da ogni pregiudiziale sul
futuro assetto istituzionale del paese. La politica comunista deve
radicalmente mutare: non ispirarsi più a "ristretti interessi"
di classe, ma farsi carico dei supremi interessi della nazione. Pochi
giorni prima il governo sovietico aveva riconosciuto ufficialmente il
governo Badoglio e presentato un memorandum agli alleati perché premessero sui partiti antifascisti, concordi nella pregiudiziale
antimonarchica, in modo di "fare dei grossi passi verso la
possibile unione di tutte le forze democratiche e antifasciste
dell'Italia liberata".
Coincidenza
sospetta, portata sempre come prova da chi, soprattutto a destra, ha
presentato il segretario comunista come un mero esecutore della
politica di Mosca.In realtà, come si è visto, le cose hanno
contorni ben più articolati. Lo ammette un autore in questo caso non
sospetto come Giorgio Bocca:
"La
svolta di Salerno è tale solo per coloro che ignorano la storia del
partito e dell'Internazionale dopo il VII Congresso. La via d'uscita,
di cui parla Togliatti, è per i comunisti una via obbligata: se sono
stati per il fronte popolare nella guerra di Spagna, non possono
essere che per il fronte nazionale in Italia dove le condizioni sono
più favorevoli, mancando ogni pericolo a sinistra e combattendosi
una guerra di liberazione". (14)
Togliatti
è dunque risolutamente contrario non solo a una accelerazione in
senso rivoluzionario della situazione italiana, ma anche a una
immediata soluzione della crisi istituzionale attraversata dal paese.
Egli ritiene che a ogni costo vada evitato anche il minimo contrasto
con le autorità militari angloamericane e con monarchici e
cattolici. Obiettivo prioritario, a cui tutto va sacrificato, diventa
l'inserimento del partito nella legalità e nel governo. Tale in
sintesi era stato il contenuto del discorso tenuto ai dirigenti
comunisti italiani a Mosca, pronunciato il 26 novembre 1943 nella
sala delle colonne della Casa dei sindacati.
"Sarebbe
assurdo - aveva concluso allora - in un paese il quale ha fatto la
tragica esperienza di vent'anni di fascismo (...) pensare al governo
di un solo partito e al dominio di una sola classe. L'unità e la
stretta collaborazione di tutte le forze democratiche popolari
dovranno essere l'asse della politica italiana". (15)
E
se ciò scontenta socialisti e azionisti che considerano la "svolta"
un cedimento pericoloso, pazienza! L'importante è mantenere il
controllo del partito, isolando le formazioni rivoluzionarie che in
modo confuso e contraddittorio stanno sorgendo alla sua sinistra.
Il
compito si rivelerà più facile del previsto, agevolato dalla
mancanza in Italia di una organizzazione marxista-rivoluzionaria
dotata di un minimo di quadri sperimentati e di un'analisi
complessiva dei problemi interni e internazionali. Vista da tale
angolazione, la situazione è desolante e le posizioni trotskiste
quasi sconosciute. L'esperienza della Nuova Opposizione Italiana di
Leonetti, Tresso e Ravazzoli si era tutta giocata nell'emigrazione ed
era rapidamente declinata senza sedimentare in Italia nulla di
organizzato. Quanto ai gruppi che fanno riferimento a Amadeo Bordiga
e alle posizioni della sinistra comunista, il dato che emerge è
quello di un sostanziale immobilismo, frutto di una concezione
riduttiva e schematica del marxismo. Così ci si limiterà a mettere
in luce il carattere imperialistico della guerra in atto, astenendosi
di fatto da ogni iniziativa che non sia meramente propagandistica o,
dove si tenterà la via dell'organizzazione, come nel caso del
Partito comunista internazionalista di Onorato Damen, si ricadrà nel
tragico errore, già commesso in Spagna, di estraniarsi dalla lotta
antifascista, offrendo il miglior appiglio alle campagne denigratorie
degli stalinisti.
Certo,
nascono e si sviluppano, raggiungendo dimensioni anche consistenti,
organizzazioni come Stella Rossa a Torino o il Movimento Comunista
d'Italia (Bandiera Rossa) a Roma, ma caratterizzandosi per uno
stalinismo ancora più esasperato che condurrà inevitabilmente alla
confluenza nel PCI (Stella Rossa) o al disperato tentativo di
separare le responsabilità e la politica di Togliatti da quelle di
Stalin. Atteggiamento questo, detto per inciso, ricorrente nella
dissidenza comunista come dimostrerà anni più tardi l'esperienza di
Azione comunista e nella seconda metà degli anni Sessanta dei gruppi
m-l "storici".
Che
compromesso istituzionale e lotta al "trotskismo" venissero
lucidamente visti dal gruppo dirigente comunista come inscindibili, è
testimoniato chiaramente, qualora ce ne fosse bisogno, dal futuro
leader dei togliattiani di sinistra Pietro Ingrao:
"Attraverso
quel dibattito - afferma su Rinascita già negli anni della
destalinizzazione - fu condotta e vinta la lotta contro i gruppi
trotskisti, contro il massimalismo parolaio, l'anarchismo e il
settarismo e contro i residui della loro influenza nel movimento
operaio; furono gettate le basi del partito nuovo e fu affermata la
ricerca di una via italiana al socialismo". (16)
1.
E. Scalfari, De Gasperi e Togliatti laici per forza,in La
Repubblica, 22 agosto 1984.
2.
P. Togliatti, I comunisti italiani e la monarchia, in Belfagor, n.2,
1950.
3.
G. Amendola, Introduzione a Il comunismo italiano nella seconda
guerra mondiale, Editori Riuniti, Roma 1963, p. XXXVI.
4.
P. Spriano, Storia del PCI, vol. III, Einaudi, Torino 1970, pp.
327-28.
5.
G. Cerreti, Con Togliatti e Thorez, Feltrinelli, Milano 1973, p. 276.
6.
P. Togliatti, Opere, Vol. IV.2, Editori Riuniti, Roma 1979, p. 156.
7.
F. Claudin, La crisi del movimento comunista, Feltrinelli, Milano
1974, p. 274.
8.
Intervista di Stalin al corrispondente dell'Agenzia Reuter a Mosca,
in Claudin, cit., p.25.
9.
P. Spriano, i comunisti europei e Stalin, Einaudi, Torino 1983, p.
190.
10.
L'Unità clandestina, n.8, 10 giugno 1943. Citato
in D. Montaldi, Saggio sulla politica comunista in Italia, Edizioni
quaderni Piacentini, Piacenza 1976, p. 24.
11.
L. Longo, Opinione sulla Cina, La Pietra, Milano 1977, pp- 196-99.
12.
A. Occhetto, Il passato è sepolto, in La Repubblica, 10 marzo 1988.
13.
P. Robotti, La prova, Editori Riuniti, Roma 1965, pp. 307-08.
14.
G. Bocca, Palmiro Togliatti, Laterza, Roma-Bari 1973, pp. 363-64.
15.
P. Togliatti, Rinascita, 23 aprile 1966.
16.
Rinascita, maggio-giugno 1956, p. 315.
continua
(Bandiera
Rossa, n.6. giugno 1988)