Lo stalinismo nella sinistra
italiana
Seconda e ultima parte di un
articolo apparso nel 1988 su Bandiera rossa, organo della sezione
italiana della Quarta Internazionale.
Giorgio Amico
Togliatti, Stalin e la politica
italiana (1944-1947)
Seconda parte
La
politica di unità nazionale e la lotta partigiana
La
scelta di collaborare con la monarchia comporta anche il drastico
rigetto della necessaria epurazione dei fascisti presenti in forza
nell'amministrazione dello Stato e nelle Forze armate.
"Noi
abbiamo bisogno - dichiara Togliatti - di generali (...) e di
ammiragli (...), noi chiediamo ai generali e agli ammiragli di essere
patriottici, di mostrare uno spirito democratico e di evitare
l'intrigo". (17).
La
sacrosanta opera di pulizia, che perfino un a parte dell'antifascismo
borghese esige, viene così al pari della questione istituzionale
rimandata al termine delle ostilità. Funzionari, poliziotti,
generali che, a partire dal Maresciallo Badoglio, si sono macchiati
di crimini efferati in Etiopia in Libia, in Albania, in Jugoslavia,
rimangono indisturbati ai loro posti, anzi si tenterà di subordinare
ad essi la direzione militare della guerra partigiana nel Nord.
D'altronde si tratta di un passo praticamente obbligato: la scelta
istituzionale conduce inevitabilmente a porre la sordina alla lotta
partigiana, troppo carica di potenzialità eversive. Togliatti, tutto
intento a costruire le basi del compromesso con monarchici e
cattolici, attribuisce una scarsa importanza alla lotta armata contro
i nazifascisti.
"Credo
- nota amaramente Luigi Longo - abbia capito l'importanza del
movimento partigiano quando seppe che avevamo fucilato Mussolini a
Dongo. Era tutto preso dagli affari di governo, mi scriveva delle
lunghe lettere per spiegarmi cosa aveva fatto o detto con De Gasperi
o con Bonomi. Probabilmente credeva che i nostri bollettini militari
fossero propaganda". (18)
Tale
atteggiamento è anche il frutto di un pessimismo, disincantato e
cinico, nei confronti dell'azione autonoma delle masse che verrà
alla luce in ogni momento cruciale e che contagerà buona parte dei
quadri dirigenti del partito. Scrive a questo proposito Pajetta:
"Visti
da Roma, i partigiani anche a un comunista intelligente come
Negarville, a Spano (...) a Eugenio Reale (...) appaiono un po' come
ragazzi che giochino alla guerra. I compagni del Nord, a cominciare
da Longo e Secchia, non staranno per caso ancora sviluppando tendenze
di 'sinistra' di non lontana origine? E magari c'è chi, più
scettico, pensa già che la guerra, quella vera, non solo non la
vinceremo noi, ma in un certo modo non l'avremo neppure combattuta. È
un sospetto che cerco di scacciare". (19)
Per
tutta la durata della lotta armata la stampa comunista nell'Italia
liberata batterà soprattutto sui tasti patriottici dell'unità
nazionale. Manca completamente un'informazione organica
sull'andamento della guerra partigiana, sulle forme di
auto-organizzazione di un potere proletario che in molte realtà si
vanno sperimentando e che, come nelle formazioni GL, si pongono
tuttavia in aperta contraddizione con ogni ipotesi continuista nei
confronti del vecchio Stato prefascista. Lo stesso Centro comunista
nell'Italia occupata, pur accettando la svolta di Salerno, insiste
perché il partito accentui in senso classista la propria linea
politica. Sentiamo Pajetta:
"Noi
non ci sognavamo certo di imitare gli jugoslavi e non volevamo finire
come i greci; questo però non significava né che avessimo
rinunciato a una democrazia nuova e alla partecipazione popolare, per
esempio nella gestione delle fabbriche, né che intendessimo fare
tante concessioni alla 'democrazia borghese', quante se ne erano
fatte nell'Italia già liberata". (20)
La
risposta del partito è netta: viene mandato Amendola a normalizzare
la situazione, onde impedire ogni forma di autonoma azione di classe
da parte delle masse proletarie in armi. Le direttive sono quelle
stesse che alla vigilia dell'insurrezione Togliatti invia a Bologna:
"Il
compito principale che oggi sta davanti a voi sapete qual'è (...).
Liberata la vostra città il vostro compito sarà quello di dare
vita, in accordo con le autorità alleate, che all'inizio ne avranno
il controllo, a un'amministrazione democratica che si appoggi sulle
masse popolari, sui partiti che ne sono l'espressione e sull'unità
di questi partiti (...). Dovrete in pari tempo assicurare che la
maggior parte dei combattenti partigiani continui a combattere per la
libertà del paese (...) e ciò dovrà ottenersi col passaggio di
questi combattenti all'esercito italiano, di cui debbono entrare a
far parte (...). Il Nord deve dare a tutta l'Italia l'esempio di una
marcia verso la distruzione del fascismo e verso un regime
democratico che sia irresistibile per la sua stessa disciplina e per
la capacità, energia e saggezza politica dei gruppi sociali, dei
partiti e degli uomini che lo dirigono. Siamo certi che voi saprete
essere all'altezza dei nostri compiti". (21)
Disarmo
dei partigiani, ritorno al lavoro, rifiuto di ogni rivendicazione
autonoma di classe: queste le direttive togliattiane, ribadite al
termine delle ostilità in occasione del primo comizio nel Nord,
tenuto a Sesto San Giovanni il 20 maggio del 1945:
"Il
Partito comunista non avanza rivendicazioni di classe, ma vuole che
la classe lavoratrice tenda la mano a tutti quelli che vorranno
collaborare nella ricostruzione dell'Italia. Bisogna lavorare molto
nelle fabbriche, nelle campagne". (22)
Ciò
permetterà il ritorno nelle fabbriche, sotto l'effimera supervisione
dei comitati di gestione, di uomini come Valletta, già condannati a
morte dai partigiani per collaborazionismo, mentre vengono
rapidamente smantellate le forme di controllo operaio imposte dai
lavoratori alla vigilia dell'insurrezione.
Il
partito nuovo e la democrazia progressiva
I
nuovi compiti imposti dalla politica di collaborazione con la
borghesia, richiedono per Togliatti la definizione di uno strumento
che non può più essere il tradizionale partito internazionalista.
nasce il "partito nuovo", "partito della classe
operaia e del popolo, il quale non si limita più soltanto alla
critica e alla propaganda, ma interviene nella vita del paese con
un'attività positiva e costruttiva (...). La classe operaia,
abbandonata la posizione unicamente di opposizione e di critica che
tenne nel passato, intende oggi assumere essa stessa, accanto alle
altre forze conseguentemente democratiche, una funzione dirigente
(...). partito nuovo è il partito che è capace di tradurre in atto
questa nuova posizione della classe operaia, di tradurla in atto
attraverso la sua politica, attraverso la sua attività e quindi
anche trasformando a questo scopo la sua organizzazione. In pari
tempo il partito che abbiamo in mente deve essere un partito
nazionale italiano". (23)
Il
PCI non è più una piccola organizzazione clandestina, è diventato
un grande partito di massa che al momento della Liberazione conta
novantamila iscritti al Nord e oltre trecentomila nel Centro-Sud, che
diverranno addirittura 1.700.000 nell'aprile del 1946, con un
afflusso, nota il compagno Moscato in apertura di un suo scritto
dedicato a queste tematiche - di giovani entusiasti ma totalmente
scollegati da ogni tradizione del movimento operaio., come
conseguenza di vent'anni di fascismo". (24) Il PCI nel 1945 è
dunque una realtà complessa e contraddittoria, sintesi di un vasto e
confuso movimento di massa a carattere rivoluzionario che occorre
riportare alla normalità. Rapidamente viene edificata una struttura
burocratica molto articolata e retta da rigidi criteri gerarchici, in
modo da poter tenere sotto controllo la massa poco politicizzata
degli iscritti. Il quadro intermedio è formato da militanti nuovi,
formatisi nella lotta partigiana, di limitata preparazione politica
ma dotati di grandi capacità organizzative. Il tutto in un clima di
entusiasmo, proprio di una situazione sentita dalle masse come
eccezionalmente favorevole.
Un
entusiasmo difficile da tenere a freno, che ostenta ancora troppo la
propria carica rivoluzionaria. Così, durante la prima campagna
elettorale la Direzione è costretta a stigmatizzare "la
tendenza assai diffusa a disturbare comizi di altri partiti (...)
l'abuso di altoparlanti che assordano la popolazione per intere
giornate (...) l'impiego in massa di autotrasporti e il loro
superfluo scorrazzare sovraccarichi di compagni e di bandiere rosse
(...) certe espressioni di volgarità anticlericali (...)segni
evidenti e deplorevoli di deviazione dalla linea politica del Partito
(...) certi canti con parole di cattivo gusto ed esprimenti una
posizione politica diversa da quella del partito". (25)
Nella
stessa linea verranno criticati come titolo da non dare ai giornali
delle federazioni locali nomi tradizionali come "Il Proletario",
"La Comune", "La Scintilla", ecc. Il movimento
giovanile comunista viene sciolto il primo luglio 1945 al fine di
"promuovere la costituzione di una vasta associazione
apartitica, unitaria e di massa" comprendente anche i giovani
cattolici.
Tuttavia,
nonostante il perbenismo ufficiale del partito, la base operaia e
partigiana si caratterizza fortemente in senso senso rivoluzionario,
e ciò rappresenta obiettivamente un ostacolo per la politica di
unità nazionale che il partito porta avanti. Così nelle circolari
che la Direzione invia alle federazioni locali si attaccano duramente
le posizioni classiste che, nonostante tutto, fanno capolino qua e là
e che vengono sprezzantemente definite "declamazioni, vanterie e
minacce che respingono da noi le masse meno avanzate e creano in
quelle più avanzate un pericoloso stato di eccitazione e di
isolamento. Questo estremismo si traduce alla fine in una passività
reale, che viene mascherata dalla ostentazione di metodi sorpassati,
residui del periodo della guerra civile (...). Così succede che il
partito tenda qua e là ad assumere il carattere di organizzazione
solo degli strati più poveri ed esasperati della popolazione,
perdendo la capacità di penetrare tra gli operai di mentalità meno
accesa, tra i ceti medi, tra gli intellettuali, tra le donne".
(26
Come
si vede, e gli esempi potrebbero continuare numerosissimi, la
costruzione del partito nuovo interclassista e nazionale non è priva
di difficoltà. È sempre
più difficile convincere la base operaia dell'utilità di perseguire
nella politica di unità con la borghesia, sacrificando ogni
legittima rivendicazione di classe a un'opera di ricostruzione
economica che, nonostante le assicurazioni in senso contrario dei
vertici del partito, è sempre più apertamente finalizzata al
rafforzamento del capitalismo italiano uscito stremato dalla guerra e
del suo apparato repressivo in fabbrica e nella società. Togliatti
risponderà elaborando un'ideologia - da intendersi nel senso
marxiano di falsa coscienza - fondata su di un richiamo formale al
leninismo, sull'aperta falsificazione del pensiero di Gramsci e
soprattutto su di una identificazione quasi religiosa con il mito
dell'Unione Sovietica e di Stalin.
Tra
il 1946 e il 1947 appaiono le prime edizioni dei Quaderni e
delle Lettere dal carcere. I testi sono pesantemente manomessi
onde far scomparire tutto ciò che in qualche modo contrasta con la
vulgata staliniana: sparisce ogni accenno a Bordiga e a Trotsky,
naturalmente, ma anche a Rosa Luxemburg.
"Le
forbici - nota Salvatore Sechi che nel 1967 pubblica uno dei primi
studi sull'argomento - hanno lavorato in due direzioni, colpendo da
una parte l'amicizia e il consenso di Gramsci ad alcune istanza
avanzate da Trotskij e dall'Opposizione di sinistra del partito
bolscevico, l'affettuosa dimestichezza con Amadeo Bordiga, la
moralità civile antiborghese; e dall'altra la sua indifferenza per
Stalin, i cui scritti non vengono mai richiesti, come dimostra
l'elenco dei volumi letti nel periodo carcerario". (27)
Tagli
rivendicati ancora nel 1967 dal "liberal" Amendola "con
il proposito di togliere a Bordiga, quando ancora non si conoscevano
i suoi progetti e si pensava che volesse tentare un ritorno nella
vita politica, la possibilità di giovarsi dell'autorità morale di
Gramsci". (28) Tagli richiesti esplicitamente dallo stesso
Togliatti che nel 1951, in occasione della pubblicazione del quaderno
speciale di Rinascita sui primi trent'anni del PCI, esortava i
redattori in questo modo:
"Guardarsi,
naturalmente, dall'esporre obiettivamente le famigerate dottrine
bordighiane. Farlo esclusivamente in modo critico e distruttivo".
(29)
La
politica di collaborazione di classe avviata da Togliatti con la
svolta di salerno trova la sua più compiuta sistemazione teorica nel
concetto di "democrazia progressiva". Per Togliatti ciò
che sta accadendo in Italia è quella rivoluzione democratica che,
iniziatasi con le lotte risorgimentali, non è stata condotta a fondo
né sviluppata dalla borghesia. tocca ora al proletariato,
trasformatosi in classe dirigente nazionale grazie alla lotta contro
il fascismo prima e alla guerra di liberazione poi, farsene carico
assieme a tutte le forze democratiche e progressive nell'interesse
supremo della nazione.
La
prima considerazione da fare riguarda l'uso strumentale e
mistificante che viene fatto del pensiero di Gramsci. Per Gramsci,
infatti, l'arretratezza relativa del capitalismo italiano non
comportava assolutamente la necessità di "completare" la
rivoluzione democratico-borghese, ma al contrario favoriva la
rivoluzione proletaria:
"Si
ha in Italia conferma - affermava nelle tesi redatte per il congresso
di Lione - della tesi che le più favorevoli condizioni per la
rivoluzione proletaria non si hanno necessariamente sempre nei pesi
dove il capitalismo e l'industrialismo sono giunti al più alto grado
del loro sviluppo ma si possono invece avere là dove il tessuto del
sistema capitalistico offre minori resistenze, per le sue debolezze
di struttura, a un attacco della classe rivoluzionaria e dei suoi
alleati". E conclude con determinazione: "Il capitalismo è
l'elemento predominante nella società italiana e la forza che
prevale nel determinare lo sviluppo di essa. Da questo dato
fondamentale deriva la conseguenza che non esiste in Italia
possibilità di una rivoluzione che non sia la rivoluzione
socialista". (30)
Le
tesi di Lione sono del 1926. a prendere per buona la concezione
togliattiana di "democrazia progressiva" dovremmo ricavarne
la conclusione che vent'anni più tardi il livello delle forze
produttive e la natura dei rapporti sociali in Italia fossero
drammaticamente regrediti. In realtà, "l'alternativa che si
poneva nel 1944-45 era la seguente: o uscire dal quadro del regime
capitalista, ponendo la prospettiva del potere operaio, o rassegnarsi
alla prospettiva di un ritorno alla democrazia borghese di vecchio
tipo che, nella misura in cui si fosse consolidata, lo avrebbe fatto
a spese del proletariato e con un arroccamento su posizioni sempre
più conservatrici". (31) E i fatti stessi si incaricheranno in
breve di dimostrarlo.
Il
PCI forza di governo
La
collaborazione del PCI a livello governativo continua e si
intensifica dopo la Liberazione, prima con il governo Parri e poi con
i due primi governi De Gasperi. Abbiamo visto come già nel 1944
Togliatti cercasse a ogni costo l'incontro con i cattolici e ciò
spiega l'inerzia del segretario comunista di fronte alla caduta del
governo Parri e il favore con cui viene salutata la candidatura di De
Gasperi alla presidenza del Consiglio, considerata la fine di una
storica politica di esclusione dei cattolici dalla scena pubblica
nazionale. Togliatti è sinceramente convinto della volontà di
collaborazione di De Gasperi e lo sottolinea in moltissime occasioni
ai compagni che esprimono perplessità. Così a Basso, che lo critica
per il voto favorevole all'articolo 7 della Costituzione che di fatto
rende il Concordato del '29 fra Stato fascista e Chiesa cattolica
legge fondante della Repubblica, risponde convinto: "Questo voto
ci assicura un posto al governo per i prossimi vent'anni". (32)
Dal
giugno 1945 al giugno 1946 Palmiro Togliatti è ministro di Grazia e
Giustizia. Il suo atteggiamento sarà sempre improntato al più
rigoroso rispetto non solo della legalità borghese, ma anche della
continuità dell'apparato repressivo dello Stato passato immune
attraverso la farsa dell'epurazione. Uno dei suoi primi atti, in un
momento di forti tensioni sociali scatenate dalla miseria dilagante
nei primi mesi del dopoguerra, è l'invio ai procuratori della
repubblica delle varie province di severe disposizioni perché facciano rispettare la legge e difendano la proprietà:
"Non
sarà sfuggito - si legge in una di tali circolari - All'attenzione
delle SS.LL. Ill.me che, specie in questi ultimi tempi, si sono
verificate in molte province (...) manifestazioni di protesta da
parte di disoccupati culminanti in gravissimi episodi di devastazione
e di saccheggio a danno di uffici pubblici nonché di violenze contro
i funzionari. pertanto questo ministero, pienamente convinto
dell'assoluta necessità che l'energica azione intrapresa dalla
polizia per il mantenimento dell'ordine pubblico debba essere
validamente affiancata e appoggiata dall'autorità giudiziaria, si
rivolge alle SS.LL., invitandole a voler impartire ai dipendenti
uffici le opportune direttive affinché contro le persone denunciate
si proceda con la massima sollecitudine e con estremo rigore. Le
istruttorie e i relativi giudizi dovranno essere espletati con
assoluta urgenza onde assicurare una pronta ed esemplare repressione
(...). Si raccomanda infine di procedere, in tutti i casi in cui la
legge lo consenta, con istruzione sommaria o a giudizio per
direttissima e di trasmettere gli atti all'autorità giudiziaria
militare qualora ricorrano le condizioni previste". (33)
La
fiducia in una magistratura non epurata, formatasi negli anni del
fascismo e violentemente antioperaia, è totale. Emerge ancora una
volta l'immagine di un uomo che diffida delle masse che
sostanzialmente disprezza, mentre pare trovarsi a suo agio solo
all'interno di un apparato burocratico, sia esso il Comintern
staliniano o il governo repubblicano spagnolo, o i generali di
Badoglio, o l'apparato dello Stato restaurato dopo una ridicola
parvenza di epurazione.
Nei
confronti della base degli iscritti si sosterrà in seguito, dopo la
cacciata dal governo nel 1947, che la politica sostanzialmente
negativa perseguita dal 1944 era stata determinata dai
condizionamenti posti dalla situazione internazionale e dai ricatti
della DC e degli alleati. In realtà le cose stanno ben diversamente.
Il fatto è che il PCI, che non vuole essere forza rivoluzionaria,
non può essere neppure forza riformista ché troppi sarebbero stati
gli interessi che si sarebbero comunque dovuti in qualche modo
intaccare. Il risultato è l'immobilismo. Scrive a questo proposito
Danilo Montaldi:
"Il
PCI tende a trasfondere nell'azione ministeriale dal '44 al '47, con
ruolo di mediazione, quanto emerge dalla lotta tra le classi nel
paese; ma non può 'fare politica' come è nelle sue ambizioni, non
può diventare autentico 'partito di governo' se non alla condizione
di servire un solo 'blocco' - e nello stesso tempo lo Stato - perché su quel terreno possibilità di politica unitaria a lungo termine non
ne esistono. Donde il suo verificato immobilismo anche sul piano
ministeriale e parlamentare. È
la tendenza a permanere in funzione di qualche 'dopo' che non
coincide mai con la prospettiva del proletariato". (34)
Una
realtà, questa, che l'esperienza berlingueriana dell'unità
nazionale e del compromesso storico ha riproposto in tutta la sua
evidenza.
1947:
il benservito della borghesia
L'avvio
della guerra fredda nel 1947 coglie di sorpresa il PCI che almeno dal
1943 puntato tutte le sue carte sull'alleanza, ritenuta
indistruttibile, fra l'Unione Sovietica e le grandi potenze
imperialistiche occidentali. Ora che la situazione interna è
normalizzata, che iniziano ad affluire capitali americani, che la
prima fase, quella più dura, della ricostruzione è compiuta, alla
borghesia i comunisti non servono più: gli si può dare il
benservito. Gli stretti legami con l'URSS, vantaggiosi fino a che
questa era alleata degli USA, diventano di lì in poi la prova della
doppiezza comunista, dell'inaffidabilità del PCI come forza di
governo. L'intero progetto politico togliattiano si trova nel giro di
poche settimane posto ai margini del quadro politico, privato di ogni
spazio di manovra.
Scriveva
Trotsky dal confino di Alma Ata a proposito della maggioranza
staliniana dell'Internazionale:
"Il
compito di questa scuola strategica consiste nell'ottenere con la
manovra tutto quello che la sola forza rivoluzionaria della classe
può conquistare (...). Tuttavia, tutti i tentativi di applicare il
metodo burocratico degli intrighi alla soluzione di grandi questioni
in quanto metodo relativamente più 'economico' di quello della lotta
rivoluzionaria, hanno portato inevitabilmente a sconfitte vergognose
(...). Bisogna capire una volta per tutte che una manovra non può
mai decidere una grande causa (...). La contraddizione che esiste tra
il proletariato e la borghesia è una contraddizione fondamentale.
Ecco perché tentare di imbrigliare la borghesia, ricorrendo a
manovre organizzative o personali, e di obbligarla sottoporsi a
piani previsti nelle 'combines' non significa operare una manovra ma
ingannare se stessi in modo vergognoso, anche se si tratta di
un'ampia operazione. non si possono ingannare le classi. Ciò vale
per tutte le classi se si considerano le cose dal punto di vista
storico generale; ma vale più particolarmente e direttamente per le
classi dominanti, possidenti, sfruttatrici, colte. La loro esperienza
del mondo è così grande, i loro istinti di classe così esercitati,
i loro organi di spionaggio così vari che, tentando di ingannarle,
fingendo di essere quello che non si è, si finisce in realtà con il
far cadere nella trappola non i nemici ma gli amici". (35)
17.
Secchia-Frassati, Storia della Resistenza, Editori Riuniti, Roma 1965,
p.307.
18.
G. Bocca, op. cit., p. 377
19.
G. Pajetta, Il ragazzo rosso va alla guerra, Mondadori, Milano 1986,
p. 105.
20.
Ivi, p. 67.
21.
P. Togliatti, Lettera al triumvirato di Bologna, in Rinascita n.4,
aprile 1955.
22.
L'Unità, 22 maggio 1945.
23.
P. Togliatti, che cos'è il partito nuovo?, Rinascita,
ottobre-dicembre 1944.
24.
A. Moscato, Il PCI al governo nel 1944-47, in Sinistra e potere,
Sapere 2000, Roma 1983, p. 11.
25.
Migliorare la campagna elettorale, in La politica dei comunisti dal V
al VI Congresso, Roma s.d., p. 46.
26.
I risultati della consultazione popolare del 2 giugno e i compiti dei
comunisti. Risoluzione della direzione del PCI, in La politica dei
comunisti, cit., p. 80.
27.
S. Sechi, Spunti critici sulle "Lettere dal carcere" di
Gramsci, Quaderni piacentini, n.29, gennaio 1967.
28.G.
Amendola, prassi rivoluzionaria e storicismo in Gramsci, Critica
Marxista, n. 2, 1967, p. 6.
29.
L. Cortesi, Introduzione a Tasca, I primi dieci anni del PCI,
Laterza, Roma-Bari 1971, p. 34.
30.
Tesi di Lione, Milano 1975, p. 18
31.
L. Maitan, Teoria e politica comunista del dopoguerra, Schwarz,
Milano 1959, p. 42.
32.
G. Bocca, op. cit., p. 450.
33.
ivi, p. 453.
34.
D. Montaldi, op. cit., p. 265.
35.
L. Trotskij, La III Internazionale dopo Lenin, Schwarz, Milano 1957,
pp. 155-57.
(Bandiera
Rossa, n.6. giugno 1988)